Donne, infinite donne, elegantissime, ingioiellate, eppure prigioniere; il mistero che si cela nell’arte di Massimo Campigli viene indagato in oltre ottanta opere, concesse da celebri musei e raccolte private, a documentare l’intero percorso dell’artista, dagli anni venti agli anni sessanta, quando le sue iconografie tipiche, figure femminili racchiuse in sagome arcaiche di grande suggestione simbolica, divengono esplicite meditazioni sull’archetipo femminile, sempre in equilibrio fra ingenuità e cultura, con una stilizzazione geometrica che rende personalissima la sua maniera.
In concomitanza con la pubblicazione del Catalogo generale dell’artista (realizzato dagli Archives Campigli) la mostra “Campigli. Il Novecento antico”, a cura di Stefano Roffi, presso la Villa dei Capolavori, sede della Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo (Parma), dal 22 marzo al 29 giugno 2014, richiama così l’attenzione su uno dei pittori più significativi del Novecento italiano, presente nei maggiori musei del mondo ma pressoché assente dalla grande scena espositiva dopo la memorabile mostra che la Germania gli dedicò nel 2003.
“Nelle mie fantasticherie, le mie innamorate erano sempre prigioniere” Massimo Campigli in “Scrupoli”, 1955 (twitta la citazione)
Cinque le sezioni, oltre ai grandi mosaici allestiti nel giardino: la stupenda ritrattistica, con le effigi di personalità del mondo della cultura, ma anche amici, signore belle e famose; la città delle donne, che accosta opere che rivelano l’ossessione per un mondo che pare tutto al femminile; le figure in sé prive di identità ma caratterizzate da scene di gioco, spettacolo, lavoro, che l’artista osserva memore del proprio passato di reporter a Parigi; i dialoghi muti, coppie vicine spazialmente ma incapaci di comunicare, prigioniere del proprio mistero; gli idoli, presentati nell’evoluzione dalle figure idolatriche tratte da Carrà negli anni venti a quelle di ispirazione primitiva che compaiono a partire dagli anni cinquanta. Di particolare interesse l’accostamento, per la prima volta in un’esposizione, delle quattro enormi tele che Campigli teneva nel proprio atelier.
Tre domande a Stefano Roffi, curatore della mostra CAMPIGLI il Novecento antico. Come mai proprio Campigli?
Campigli è il grande dimenticato dell’arte italiana del Novecento; nonostante sia presente nei principali musei del mondo, adorato dai collezionisti in particolare americani e inglesi, raffinatissimo nei suoi lavori grafici, arcano ed elegante in pittura. Ha certamente pagato il suo interesse quasi maniacale per le donne, che ha rappresentato in un modo che a partire dai primi anni settanta non trovava sintonia nella presunta intellighenzia dominante, improntata a un femminismo manierato e un po’ ottuso; il pittore che dava forma a figure femminili squisite ornate di gioielli degni di grandi regine, abiti di pizzi e acconciature ispirate a Cleopatra non poteva che risultare simbolo di un mondo da dimenticare, meglio bruciare reggiseni e propagandare una malintesa forma di autonomia della donna dall’uomo, scegliere altre icone, a negare secoli di donne divinizzate ed eternate attraverso l’arte. Campigli risultò vecchio, antico nel senso di superato, quasi esecrabile; un sultano sadico che imprigionava le sue donne nei ceppi di una pittura anti-moderna.
E’ giusto riportarlo al posto che gli spetta, quello di uno dei massimi esponenti dell’arte italiana del Novecento. E’ così che l’approfondimento dell’arte italiana del Novecento, promosso da alcuni anni dalla Fondazione Magnani Rocca, conosce, con la mostra “Campigli. Il Novecento antico”, un nuovo e fondamentale capitolo, dopo le esposizioni che ebbero come protagonisti Filippo de Pisis, i futuristi, Mario Sironi, Renato Guttuso, Antonio Ligabue, Ennio Morlotti, Alberto Burri, e anche Giorgio de Chirico, presentato come mentore del Surrealismo e di Paul Delvaux. Proprio con Delvaux, protagonista della mostra di un anno fa, può essere individuato un dialogo a distanza fra artisti, nella comune scelta che Campigli e il grande pittore belga fecero della figura femminile, presenza ossessiva, come protagonista delle proprie opere e nella sublimazione in pittura di un trauma psicologico altrimenti irrisolto.
Cosa ci racconta di nuovo su Massimo Campigli questa mostra?
La grande varietà dei soggetti trattati in pittura da Campigli era stata finora penalizzata da una presentazione banalmente cronologica e antologica che non valorizzava l’interesse dell’artista per tematiche specifiche, sviluppate nel corso della sua carriera con tecniche e riferimenti culturali via via diversi. La mostra della Fondazione Magnani Rocca è in questo senso innovativa, come ha riconosciuto il Corriere della Sera nella recensione alla mostra, con una “rilettura” delle opere di Campigli non condizionata dagli studi precedenti, che ha invece cercato di evidenziare e valorizzare la complessità dei suoi interessi.
La stupenda ritrattistica, con le effigi di personalità del mondo della cultura, ma anche amici, signore belle e famose; la città delle donne, che accosta opere che rivelano l’ossessione per un mondo che pare ginocentrico; le figure in sé prive di identità ma caratterizzate da scene di spettacolo, lavoro, gioco, che Campigli osserva memore del passato di reporter; i dialoghi muti, coppie vicine spazialmente ma incapaci di comunicare, prigioniere del proprio mistero; gli idoli, presentati nell’evoluzione dalle figure idolatriche tratte da Carrà negli anni venti a quelle di ispirazione primitiva che compaiono a partire dagli anni cinquanta, passando per immagini quasi votive. Un mondo d’artista ricchissimo, non più costretto in gabbie critiche superate.
La locandina della mostra è il ritratto di Olga Capogrossi, già ribattezzata la ragazza dagli occhi di giada. Come si sceglie l’immagine di punta di una mostra così importante?
Il Ritratto di Olga Capogrossi – realizzato da Campigli alla fine degli anni cinquanta quando la sua pittura stava risentendo della figurazione “segnica” di Giuseppe Capogrossi, padre di Olga .- rappresenta la perfetta sintesi fra il Novecento e l’antico, l’ossimoro apparente che fa da sottotitolo alla mostra. Olga è una sedicenne bellissima; gli occhi sono indimenticabili, ma il broncio appena accennato della bellissima bocca ricorda quello di Brigitte Bardot, celebrato sugli schermi proprio in quegli anni.
Il riferimento è quello della ritrattistica del Fayum, di quei volti che nell’Egitto dominato da Roma testimoniavano un’eternità inviolabile. Antico e contemporaneo si incontrano e si fondono armoniosamente a creare una bellezza simbolo che va al di là del tempo, un ideale che si aggiunge ad altri volti dalle medesime caratteristiche di soavità atemporale; pensiamo alla celebrata Ragazza dall’orecchino di perla di Vermeer, alla Dama con l’ermellino di Leonardo o a Mademoiselle Rivère di Ingres. Una galleria di grandi ritratti femminili che trova in Olga la migliore rappresentante novecentesca.
Perfetta è stata l’intesa con Kreativehouse nella scelta di Olga Capogrossi come immagine di punta della mostra; le esigenze della promozione, del messaggio sintetico che possa lasciare al pubblico in pochi attimi l’immagine indelebile di un desiderio, riscontrano nel Ritratto la migliore coniugazione con le istanze dell’arte e della cultura.
Progetto: Comunicazione mostra Campigli Il Novecento antico
Cliente: Fondazione Magnani Rocca