Luca Cacciapuoti è Corpo & Immagine. Scatti fotografici che si configurano come veri e proprio quadri viventi, come nell’antica tradizione dei tableaux vivants: opere in cui modelli e attori rappresentano una scena, la ricreano in un’immobile – eterna – palpitanza.
È una storia antica quella dei tableaux vivants, ha attraversato i secoli abbracciando pratiche e immaginari lontani tra loro: dalle sacre rappresentazioni medievali, alla videoarte di Bill Viola, che rincorre, come il cinema di Pasolini, le visioni manieriste e teatrali di Pontormo. È un’espressione teatrale, per vocazione.
I modelli, debitamente acconciati e disposti in uno scenario ad hoc, ricreano immagini di dipinti o di sculture celebri: i tableaux vivants difatti come loro modello d’elezione non anelano alla vita, ma all’arte. È arte che genera arte, è il basso che pesca dall’alto, dove correnti e mode di carattere più popolare, folkloristico, vanno a contaminare i modelli aulici delle grandi devozioni. Il tableaux vivant è lo spirito della domenica paesana che mette in scena i tòpoi delle grandi celebrazioni. È una pratica camaleontica che nei secoli ha saputo mutare pelle, codici e linguaggi, andando a intrecciarsi con le ricerche fotografiche e cinematografiche (da Rejlander a von Gloeden, da Artaud a Greenaway), fino a rifiorire anche nelle performance di artisti come Gilbert & George, Luigi Ontani e – ovviamente – Cindy Sherman.
I suoi sono tableaux che rifuggono l’imitazione (la negano), mantengono vivo lo stile teatrale, dove i soggetti (siano esse nature morte misteriche o madonne velate di cellophane) sono immortalati in scatti precisi come la scrittura di un bulino, per inscenare delle sciarade fotografiche.
Nel suo immaginario si rincorrono i grandi maestri della fotografia pop, con omaggi a Jean-Paul Goude (Kim Kardashian chiocciano i suoi follower su Instagram, solo uno si ricorda di Grace Jones: è la Generazione Z!), Pierre et Gilles e Lachapelle e – ovviamente – Terry Richardson. È dalle loro ceneri che nasce la poetica poetica inedita, enigmatica e piena di oracoli di Luca Cacciapuoti.
Storie surreali e misteriose vengono raccontate attraverso fotogrammi sensualmente lussureggianti, dei veri propri rebus in cui l’estetica preraffaellita flirta con i nonsense di Magritte, in un continuo dialogo tra Carmelo Bene, Guy Bourdin e Miles Aldridge. Atmosfere surreali e cura ossessiva per il dettaglio danno vita a brevi storie, fotogramma per fotogramma, che si offrono agli spettatori come piccoli percorsi di agnizione.
Nei suoi progetti Luca Cacciapuoti scorge tra i ritagli culturali di una formazione onnivora e decadente (da Antonioni a Von Trier) – a volte distanti tanto da sembrar convivere in uno stesso microcosmo creativo per pura casualità, siano i riferimenti letterari, pittorici o poetici – la possibilità di partorire una nuova infinità di mondi sospesi; a volte plausibili, altre smaccatamente alieni, per quanto sempre magnetici.
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Sono reinvenzioni che colgono lo spettatore sempre di sorpresa, lasciandolo sempre impreparato, mettendolo sempre in quello stato d’animo – misto di attesa e riluttanza – che precede una scoperta. Nei suoi scatti, lividi e plumbei, si materializzano profezie di eventi prodigiosi e di nefasti accadimenti, andando così a delineare i confini (mai netti) di una fotografia dal carattere oracolare.
È arte postmoderna, certo, ma solo in parte. Scriveva Umberto Eco nelle Postille al Nome della Rosa: «Credo tuttavia che esso non sia una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare. […] L’avanguardia distrugge il passato, lo sfigura […] poi l’avanguardia va oltre. […] Ma arriva il momento da cui l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente».
Luca Cacciapuoti non fa dell’ironia però, non stempera, non cita per piaggeria o per amor di completismo, lui i maestri non li glorifica, non li rinnega, porge loro una sfida: li attraversa. Non si rifugia nel passato, per lui è un trampolino verso mondi nuovi, inaspettati, spesso ignoti. Allo spettatore non resta che il piacere di perdersi nel suo oblio.